Parità di genere, le aziende adesso devono certificarsi


L’uguaglianza tra uomini e donne in azienda passa anche attraverso le attestazioni ufficiali. Per la precisione per la certificazione per la parità di genere. Ma come funziona il rilascio di queste attestazioni? «Le aziende che vogliono aderire devono presentare una documentazione che dimostri l’applicazione di comportamenti non discriminatori» spiega Anita Falcetta, attivista per i diritti delle donne, tra le Unstoppable Women 2021 di Startup Italia e Presidente di Women of Change Italia, nonché consulente aziendale per la certificazione di genere.

A che punto è l’Italia sotto il profilo della parità uomo-donna?

«Si posiziona all’87esimo posto su 146 paesi nel Global Gender Gap Index 2024, con un punteggio complessivo di 0,703. Un peggioramento rispetto al 2023, quando si trovava al 79esimo posto. È poi 111esima per partecipazione economica e opportunità, con una percentuale di donne in ruoli di leadership pari a 38,7. Lo squilibrio è particolarmente evidente nelle quotate, che adottano pratiche di solito meno virtuose rispetto alle non quotate. A metterlo in luce è una recente indagine della Bocconi School of Management».

Nel resto del mondo le cose vanno meglio?

«Sempre nel 2024 il punteggio globale del divario di genere si è attestato al 68,5%, con un miglioramento di soli 0,1 punti rispetto all’anno precedente. A questo ritmo, si stima che ci vorranno 134 anni per raggiungere la piena parità a livello globale. Parliamo di più di cinque generazioni».

Le aziende cercano il profitto, per definizione. Per spronarle a essere virtuose è naturale che per loro ci siano incentivi economici a fronte della certificazione

«È inevitabile, anche perché non si tratta di un obbligo di legge, ma di un’adesione su base volontaria. Sul piano strettamente fiscale, è previsto per chi la ottiene un esonero nella misura dell’1% dei contributi previdenziali, fino a un tetto massimo di 50mila euro annui. A prevederlo è l’articolo 5 della legge 5 novembre 2021 numero 162, la legge Gribaudo. Ma ci sono anche altri incentivi».

Quali?

«A sancirli è sempre la legge Gribaudo. Si riconosce per esempio un punteggio premiale per la valutazione di progetti ai fini della concessione di aiuti di Stato. In più per i datori di lavoro in possesso della certificazione c’è un punteggio apposito previsto nel codice degli Appalti Pubblici. L’articolo 106 stabilisce inoltre per tutte le tipologie di contratto una diminuzione della garanzia del 20% in caso di certificazioni attestanti specifiche qualità. Rientra tra queste anche quella per la parità di genere. E non finisce qui. C’è anche la possibilità di recuperare le spese. Ad esempio c’è stato un bando indetto da Regione Lombardia e Unioncamere Lombardia che ha aiutato molte aziende a recuperare i costi della certificazione e della consulenza relativa».

Di quali cifre parliamo?

«Si possono dire numeri a spanne, ma il conteggio reale cambia a seconda dei casi. In linea di massima possiamo ipotizzare 3mila euro per la consulenza e altri 4-5mila per l’ente di certificazione che concede l’attestato. Ma la spesa non è uguale per tutti. I costi sono in genere commisurati alle dimensioni dell’azienda. Le piccole e medie imprese e micro imprese usufruiscono anche di contributi destinati sia a supportare i servizi di assistenza tecnica e di accompagnamento alla certificazione, sia a sostenere i costi della certificazione stessa».

C’è una classificazione precisa delle aziende?

«Per la certificazione di genere esistono quattro fasce. La prima è quella delle microimprese, da 1 a 9 dipendenti. La seconda è quella delle piccole, da 10 a 49 dipendenti. Poi la terza, da 50 a 149 dipendenti, che sono le aziende medie. Infine la fascia quattro: da 150 dipendenti in su».

Quali sono gli enti ufficiali cui è demandato il riconoscimento dell’attestazione?

«Ci si deve rivolgere agli istituti accreditati presso Accredia, l’ente designato dal Governo italiano, autorità super partes che opera sotto la vigilanza del ministero delle Imprese e del Made in Italy. Il suo compito è attestare la competenza e l’imparzialità degli organismi e dei laboratori che verificano la conformità dei beni e dei servizi alle norme. Nel mio caso, la collaborazione è con RINA, azienda di consulenza socia di Valore D, associazione di imprese che promuove la parità di genere».

Qual è la normativa di riferimento?

«Bisogna andare per gradi. Risale al 2006 il Codice delle pari opportunità tra uomo e donna, poi modificato nel 2021. Già allora si introdusse l’obbligo per i datori di lavoro di garantire la parità di trattamento al di là del genere in contesti di lavoro, formazione, retribuzione e via dicendo. La spinta grande è poi arrivata con il PNRR. Il sistema di certificazione della parità di genere rientra nella Missione 5, Inclusione e Coesione, Componente 1, Politiche attive del lavoro e sostegno all’occupazione. La finalità si ripete: la maggiore inclusione delle donne nel Mercato del lavoro, essenziale per la coesione sociale e territoriale, nonché di fondamentale importanza per la crescita economica. C’è poi la strategia nazionale per la parità di genere 2021-2026, che ha lo scopo di incrementare di cinque punti, entro il 2026, l’indice sull’uguaglianza di genere elaborato dall’Istituto europeo per l’uguaglianza di genere EIGE. Allo stato attuale, l’Italia è al 14esimo posto nella classifica dei Paesi UE».

Poi cosa è successo?

«La disciplina di quanto previsto dal PNRR è confluita nella legge Gribaudo, la 162 del 2021 di cui dicevamo. Andavano però definiti gli standard tecnici, così presso il Dipartimento per le pari opportunità è stato istituito un Tavolo sulla certificazione della parità di genere. Il lavoro è confluito nella Prassi di riferimento UNI/PdR 125:2022. Il documento introduce linee guida sul sistema di gestione per la parità di genere. Si istituisce così l’adozione di specifici key performance indicators. Sono 33 in tutto».

Cosa devono fare le aziende per adeguarsi?

«Ci sono sei criteri su cui basare la valutazione delle organizzazioni. Le aree di maggior peso sono quelle relative alle opportunità di crescita e inclusione delle donne in azienda, l’equità retributiva e la tutela della genitorialità. Ognuna vale il 20%».

Cosa conta poi?

«Ci sono la cultura e strategia, per misurare che i principi di parità siano coerenti con i valori dell’ambiente di lavoro. Quest’area vale il 15%, al pari della governance, in cui invece si osserva la presenza del genere di minoranza negli organi di indirizzo e controllo. Infine i processi HR, che contano per il 10%: servono a misurare che tutti gli stadi del ciclo di vita di una risorsa nell’organizzazione siano basati sui principi di inclusione e rispetto della diversità. Il punteggio minimo è 60».

A che punto siamo con i traguardi stabiliti dal PNRR rispetto alla diffusione della certificazione di genere?

«Il traguardo iniziale erano 800 aziende, di cui almeno 450 piccole e medie. Ma si è andati ben oltre. Al momento sono oltre 16mila le sedi aziendali italiane che hanno conseguito la certificazione».

Lei è anche un’attivista per i diritti delle donne. A gennaio 2022 ha fondato ed è stata eletta Presidente di Women of Change Italia. Di cosa vi occupate?

«L’associazione è impegnata nella tutela dei diritti delle donne e delle minoranze. Proponiamo best practices e modelli virtuosi alla società civile e al mondo dell’impresa e ci battiamo per l’incremento della rappresentanza delle donne in tutti i settori professionali e a tutti i livelli. Cerchiamo di rispondere alla nostra mission in modo autentico e equilibrato, mantenendo il focus sul merito, al netto di qualsiasi forma di pink washing».

Dal 2021 è stata nominata tra le Unstoppable Women di Startup Italia

«Un riconoscimento dovuto all’impegno professionale finalizzato all’innovazione e al cambiamento del nostro Paese, attraverso la promozione del principio di equità. Di mezzo ci sono anche gli sforzi per una riflessione sull’integrazione delle nuove tecnologie e l’intelligenza artificiale con il sistema di pensiero tradizionale».

Quali progetti avete in corso?

«lo scorso anno abbiamo inaugurato Women of STEM Talks, un ciclo di interviste in modalità virtuale, pensate in occasione della Settimana Nazionale delle STEM, che cade ogni anno dal 4 all’11 febbraio. Una delle nostre ospiti è stata la prima firmataria della legge che ha istituito la settimana, l’onorevole Marta Schifone, che ha molto gentilmente accettato il nostro invito a un’intervista. Alla luce dell’interesse riscosso, ma soprattutto non potendo ignorare il valore di ritrovarsi e fare un punto su un tema così importante come la presenza delle donne nelle materie tecnico-scientifiche, quest’anno abbiamo deciso di riproporre il progetto».

Chi collabora con voi?

«A oggi abbiamo il patrocinio di Asseprim – Confcommercio e Global Thinking Foundation, fondazione presieduta da Claudia Segre, che è co-chair del W7 e che sarà tra le intervistate. L’iniziativa è realizzata poi insieme all’associazione Women&Tech ETS e Nuove Reti, società di relazioni istituzionali da sempre al nostro fianco».                                             

©

📸 Credits: Canva   

Articolo tratto dal numero del 15 febbraio 2025 de il Bollettino. Abbonati!         





Source link

***** l’articolo pubblicato è ritenuto affidabile e di qualità*****

Visita il sito e gli articoli pubblicati cliccando sul seguente link

Source link