In attesa che il Partito democratico dimostri di esistere mentre Donald Trump cambia quotidianamente le regole della democrazia americana, la prova di coraggio l’ha data ieri il più debole e minacciato degli avversari del presidente: un ucraino che da tre anni è vittima dell’aggressione russa e ora dell’avidità economica americana.
Prima di diventare il leader del paese che Vladimir Putin vorrebbe riprendersi nella sua smania imperialista da XIX secolo, Volodymyr Zelensky faceva l’attore comico. In una serie tv aveva interpretato il cittadino comune spinto dalla corruzione del sistema politico ucraino e dal caso, a candidarsi e diventarne il presidente. La finzione era poi diventata realtà.
Tuttavia, ieri nello studio ovale il guitto diventato presidente ha resistito all’immobiliarista che vuole farsi re. Zelensky è stato più coraggioso dei leader europei andati alla Casa Bianca o a Mar-a-Lago a tastare, quando non a pietire, la benevolenza di Donald Trump. È curioso che fra i paesi che contano del vecchio continente, il più deciso a proporre un’alternativa europea all’arroganza dell’America di Donald Trump, sia ora Friederich Merz: il nuovo cancelliere di Germania, il paese che per comprensibili motivi storici, è sempre stato il più acritico sostenitore degli Stati Uniti.
Zelensky sapeva a cosa andava incontro, rispondendo a Trump. Il Wall Street Journal, un quotidiano non certo nemico del nuovo presidente americano, aveva raccontato nei dettagli la storia delle terre rare ucraine che l’amministrazione Trump pretende di avere da Kyiv.
Trump aveva mandato il segretario al Tesoro Scott Bessent col compito di portare a casa il forzoso accordo da centinaia di miliardi di dollari. Era inteso come compensazione delle spese americane per aver sostenuto l’Ucraina: una cifra infinitamente inferiore da quella ora pretesa da Trump che in cambio non offre a Kyiv alcuna garanzia di sicurezza per il futuro.
“Bessent”, scrive il Wall Street Journal, “ha spinto il documento attraverso il tavolo chiedendo a Zelensky di firmarlo. ‘Devi davvero firmarlo’, gli ha detto il segretario al Tesoro”. Più tardi Zelensky avrebbe rivelato che Bessent aveva aggiunto: “La nostra gente a Washington si arrabbierebbe molto se non lo firmassi”. Sembra più una scena del Padrino parte seconda che una trattativa fra alleati.
Molti paesi in pace si stanno chiedendo da quasi un paio di mesi – tanto quanto è in carica la nuova amministrazione – come adattarsi al new normal della superpotenza americana. Zelensky che è in guerra e da tre anni la subisce: nonostante la verità alternativa trumpiana sostenga il contrario, ha deciso di resistere in diretta, praticamente in mondovisione, all’arroganza di quella che dovrebbe essere la nuova realtà.
La lista di retributions, di vendette contro chi si era opposto a lui nel primo mandato – generali, giudici, funzionari delle agenzie federali – Trump l’ha trasformata in programma del suo mandato. È già operativa. È difficile immaginare come, nel suo ego sconfinato, Donald Trump punirà Volodymyr Zelensky. Chiederà probabilmente consiglio al suo nuovo alleato Vladimir Putin.
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