Perché Amazon, Meta, Microsoft e Apple pagano così poche tasse: quanto versano davvero all’Italia?


di
Redazione Economia

Dal 2020 in Italia è in vigore l’imposta sui servizi digitali.Il gettito è intorno ai 400 milioni, molto inferiore alle stime iniziali. Perché Big Tech riesce a scavalcarla. E anzi: Google ha alzato i prezzi sul consumatore finale

Sono «fabbriche di abilità e servizi», che spaziano dai prodotti software per le aziende e privati (Oracle e Microsoft) all’intrattenimento (Netflix), dall’Internet retail basato sul commercio elettronico (Amazon, eBay ed Expedia) ai servizi Internet (Alphabet e Meta). Tramontata ormai la Global Minimum Tax, per la chiara opposizione americana che ha ritirato qualunque sostegno ad un’imposta globale sulle multinazionali al 15% del fatturato, che cosa resta dell’imposizione fiscale a Big Tech? Quanto davvero versano ai singoli Paesi europei ora che il dibattito sulla contrapposizione Usa-Ue, alimentata ad arte dal presidente Donald Trump, sta tracimando? Perché far naufragare questa tassa globale è la fine di ogni speranza di riequilibro fiscale?

L’aliquota fiscale

Nel 2022 le filiali italiane delle Web-Soft, registrò Mediobanca, versarono al fisco italiano solo 162 milioni di tasse, per un tax rate effettivo del 28,3%. Per fare un parallelo per i redditi medio-alti, sopra i 50mila euro annui, in Italia l’aliquota supera il 43%. Dunque un dipendente con un reddito netto da circa 2.500 euro al mese paga più tasse di tutti i grandi colossi tech. Una sproporzione che Trump vuole alimentare per supportare la bilancia dei pagamenti Usa nei confronti dell’Europa che attinge a piene mani dai servizi Internet americani e non può più farne a meno. Servizi internet che hanno comportato ingenti flussi di cassa, servono per finanziare gli investimenti in innovazione tecnologia di Big Tech che dunque aumenta il suo vantaggio e conosce sempre meglio il consumatore. 




















































L’indebolimento delle democrazie rappresentative

Investimenti fisici però inferiori alle aziende manifatturiere: è questo l’architrave di pensiero di chi accusa l’economia digitale di aver accentuato le disuguaglianze. L’erosione dei sistemi fiscali — che a sua volta indebolisce lo Stato sociale — distrugge le democrazie rappresentative. Se esistono società che sfuggono del tutto a qualsiasi forma impositiva degli Stati e hanno fatturati superiori al loro prodotto lordo, non è remoto il rischio che l’erosione finisca per minare le basi dei sistemi democratici. Le prime si fanno Stato. I secondi perdono la loro essenza.

L’imposta sui servizi digitali (dal 2020)

Dal 2020 però in Italia, come in altri Paesi europei, è in vigore una tassa che dovrebbe restituire un po’ di equilibrio in questo rapporto sproporzionato tra cittadini-consumatori e grandi aziende tecnologiche. Parliamo dell’imposta sui servizi digitali (ISD), che tassa al 3% i ricavi derivanti da pubblicità online personalizzata, servizi di intermediazione tra utenti e trasmissione dati per i gruppi con più di 750 milioni di fatturato. Tra le imposte europee comparabili, la nostra, registra un’analisi puntuale dell’Osservatorio dei Conti pubblici dell’università Cattolica, è quella che ricava meno gettito in rapporto al Pil (0,020% nel 2023), ma «la differenza con la Francia (0,026%), in testa in questa speciale classifica, è bassa». Il gettito della tassa italiana è in crescita. E’ intorno ai 400 milioni, ma rimane molto inferiore alle stime iniziali di 708 milioni annui, che si sono rivelate ottimiste (le stime iniziali erano contenute nella Relazione illustrativa al disegno di legge di bilancio integrato 2020).

Il rischio trasferimento sui consumatori

A ciò si aggiunga il rischio di doppia tassazione che imposte del genere possono determinare. Configurandosi come tasse sui ricavi è concreto il rischio che queste vengano scaricate sui consumatori, segnala l’analisi dell’università Cattolica, cosa che alcune imprese stanno già facendo alimentando ulteriormente la spirale inflattiva. Vedi Google che in Italia applica dei costi operativi aggiuntivi del 2,5% ai servizi pubblicitari a causa di questa tassa. «Circa due terzi del gettito vengono dalla pubblicità e il resto dai servizi di intermediazione, mentre è minimo il contributo della trasmissione dati», spiega nel dettaglio l’analisi di Gianmaria Olmastroni, ricercatore dell’università Cattolica. Soltanto l’11% proviene da imprese residenti negli USA, mentre oltre il 40% viene dall’Irlanda (i dati vengono dalla risposta del Mef a un’interrogazione parlamentare di luglio 2023, consultabile a questo link). 

I ricavi da capogiro su una profilazione sempre più sofisticata

Motori di ricerca, email, Facebook, Apple News, Amazon, X, Google Maps: tutti servizi che utilizziamo quotidianamente senza pagare nulla. Ma questi colossi che ci mettono a disposizione tecnologie come campano? Riempiendo gli schermi di pubblicità. Internet è il più grande mercato nella storia dell’umanità, ed ha imparato a sfruttare tutte le informazioni personali prodotte ogni volta che facciamo un clic, elaborandole in algoritmi in grado di orientare i bisogni, i comportamenti sociali, ed influenzare anche le scelte politiche. Si chiama «profilazione»: una merce molto richiesta da migliaia di aziende e gruppi di pressione (su questo tema l’inchiesta Dataroom sul Corriere della Sera di qualche anno fa a firma di Milena Gabanelli)

I nostri profili venduti all’infinito

Ogni singolo profilo può essere venduto più volte, producendo ogni volta un ricavo per un diverso attore di questa filiera globale generata a nostra insaputa. Questa replicabilità rende i nostri profili il bene più scalabile e redditizio. La moltitudine di dispositivi connessi che stanno crescendo in modo esponenziale, alimentati da una potenza computazionale sempre più veloce, consente direttamente ad Amazon, Google, Facebook, Microsoft di sfruttare queste miniere di dati, diventando sempre più sofisticati nel controllo delle tecnologie integrate tra web e mobile (qui l’inchiesta del Corriere della Sera che analizza questo meccanismo).

Perché Amazon, Metà, Microsoft e Apple pagano così poche tasse: quanto versano davvero all’Italia?

Perché molto transita fiscalmente da Dublino

Molte le imprese americane, per le loro attività europee, si stabiliscono infatti in Irlanda: tra queste Apple, Meta, Google, Microsoft e Amazon. Il 19% del gettito proviene da imprese residenti in Italia, che comunque pagano regolarmente le imposte sul reddito nel nostro Paese. Per queste imprese non si tratta di una doppia tassazione visto che questa imposta sui servizi digitali può essere detratta dal reddito ai fini IRES. In Europa imposte di questo tipo che generano più gettito sono quelle di Francia e Regno Unito, che nel 2023 hanno quasi raggiunto i 700 milioni (grafico in alto). A seguire c’è l’Italia, che ricava 100 milioni in più della Spagna.

Nuova app L’Economia. News, approfondimenti e l’assistente virtuale al tuo servizio.


22 marzo 2025 ( modifica il 22 marzo 2025 | 12:11)



Source link

***** l’articolo pubblicato è ritenuto affidabile e di qualità*****

Visita il sito e gli articoli pubblicati cliccando sul seguente link

Source link