«Gli algoritmi di intelligenza artificiale? Sono spesso servizi “a scaffale” messi a disposizione dalle piattaforme tecnologiche. Per le aziende, il vero valore è nella loro personalizzazione». Parole di Carmelo Mariano, AI Practice Leader e Partner Kpmg, uno dei principali network globali di servizi professionali di revisione e consulenza aziendale. Ma che cosa intende dire, esattamente? In parole semplici, la personalizzazione significa codificare negli algoritmi il know-how unico dell’azienda: i dati proprietari, le informazioni strategiche e l’esperienza maturata nei processi interni. In questo modo, l’intelligenza artificiale diventa davvero uno strumento su misura, capace di generare valore aggiunto e differenziare l’azienda rispetto ai competitor che utilizzano gli stessi algoritmi di base.
Un esempio, per capire: un algoritmo per il riconoscimento delle immagini (“image recognition”) da utilizzare per il controllo di qualità è messo a disposizione dai principali cloud provider (Microsoft, AWS, Google) e potrà essere utilizzato sia da aziende che puntano ad avere economie di scala che da aziende che operano nel settore dei beni di lusso che vogliono differenziarsi garantendo standard di qualità differenti. Ecco, se l’azienda del luxury integra nell’algoritmo dati unici, relativi ad immagini ad altissima risoluzione dei propri materiali, e lo addestra a riconoscere difetti specifici, manterrà alto il valore percepito del brand.
Le aziende medie italiane, non disponendo degli stessi budget delle grandi corporations, possono incontrare delle difficoltà nell’investire in progetti a medio e lungo termine, soprattutto quando in azienda è diffusa la tendenza a preferire strumenti che garantiscono un ritorno immediato. Di qui l’impegno di Kpmg nell’AI. Aiuta le aziende partendo dalla definizione di una strategia di digitalizzazione con AI orientata a creare valore concreto, come il miglioramento del servizio clienti o l’ottimizzazione dei processi interni. Dopo, supporta l’implementazione operativa, adattando processi e tecnologie per l’integrazione dell’AI. Inoltre, valorizza i dati aziendali trasformandoli in asset strategici per personalizzare gli algoritmi garantendo anche la gestione dei rischi e la conformità normativa. Infine, favorisce la formazione e lo sviluppo culturale per creare un ambiente innovativo e un mindset digitale tra i dipendenti, accompagnando le imprese nella loro trasformazione in aziende AI-driven. In pratica, l’obiettivo è trasformare una tecnologia disponibile per tutti in un vantaggio competitivo esclusivo.
D: Quali sono i fattori che alimentano la crescita dell’intelligenza artificiale?
R: Le aziende, soprattutto nel settore industriale italiano, vedono nell’AI una soluzione per incrementare efficienza e produttività, elementi essenziali per competere in un mercato sempre più complesso. La produttività è sempre stato un problema, per il nostro Paese. In pratica, l’intelligenza artificiale viene considerata una leva strategica per ottimizzare i processi interni, liberare risorse e generare valore, contribuendo a rendere le strutture aziendali più performanti. Inoltre, molte imprese ritengono che l’adozione dell’AI possa migliorare il servizio al cliente, consentendo risposte più rapide e innovative, che a loro volta aprono la strada a nuove opportunità di ricavo.
D: Perché le Pmi italiane incontrano maggiori difficoltà nell’adozione dell’AI rispetto alle grandi aziende?
R: L’adozione dell’AI nelle Pmi è ostacolata da diversi fattori. Spesso il top management manifesta uno scarso impegno e una certa riluttanza a investire in tecnologie che non garantiscono ritorni immediati, privilegiando una visione a breve termine. Un approccio strategico che identifichi chiaramente gli ambiti di maggiore impatto e che costruisca un business case orientato al medio-lungo periodo risulterebbe fondamentale per superare questo scetticismo. Un ulteriore impedimento è rappresentato dalla tradizionale cultura aziendale analogica, che rende difficile immaginare e implementare casi d’uso efficaci per l’intelligenza artificiale. Per colmare questo gap, le aziende devono investire in formazione e promuovere un mindset digitale, oltre a fronteggiare le limitazioni economiche tipiche delle piccole imprese rispetto alle maggiori disponibilità finanziarie delle grandi corporation.
D: In che modo l’intelligenza artificiale sta trasformando il modello di business delle aziende?
R: L’intelligenza artificiale sta spingendo le imprese a ripensare in modo strategico il proprio modello di business. Le aziende, infatti, stanno integrando l’AI non solo per ottimizzare l’efficienza interna, ma anche per reinventare il modo di interagire con i clienti e di offrire servizi a valore aggiunto. In ambito industriale, ad esempio, i prodotti non si limitano più a combinare elettronica e meccanica, ma incorporano sistemi software avanzati e componenti intelligenti. Questo passaggio consente di proporre soluzioni più sofisticate e di generare nuovi flussi di ricavo, grazie a servizi come la manutenzione predittiva e il monitoraggio in tempo reale. A livello internazionale, esempi come John Deere rappresentano un benchmark per l’adozione dell’AI nelle macchine agricole, mentre in Italia si stanno affermando realtà nel settore del machinery e del packaging. Aziende come Coesia, Ima e Cnh Industrial hanno iniziato a integrare sensori e sistemi di raccolta dati nei loro prodotti, offrendo così servizi che migliorano l’uso e la manutenzione delle macchine. Tuttavia, questo percorso presenta anche delle sfide, tra cui la necessità di convincere i clienti a condividere i propri dati per poter sfruttare appieno le potenzialità dell’AI.
D: Qual è la percezione dell’intelligenza artificiale tra lavoratori e manager?
R: L’argomento è polarizzante. Da un lato, esistono persone—specialmente quelle più giovani e con una formazione universitaria—che vedono nell’AI un’opportunità straordinaria per aumentare la produttività e generare valore per l’azienda e i suoi stakeholder. Queste figure considerano l’intelligenza artificiale come un mezzo per recuperare competitività, in particolare in contesti dove la tecnologia è percepita come un vantaggio strategico. Dall’altro lato, c’è chi la percepisce come una minaccia, in particolare lavoratori di età più avanzata, che temono ripercussioni occupazionali e la sostituzione delle proprie mansioni da parte dei sistemi automatizzati. Una ricerca condotta quasi un anno fa ha messo in luce questa netta divisione nelle opinioni, evidenziando come il potenziale dell’AI venga accolto sia con entusiasmo che con preoccupazione.
D: Quali competenze, sia tecniche che trasversali, risultano fondamentali per sfruttare al meglio l’intelligenza artificiale nelle aziende italiane?
R: Al momento, la domanda principale riguarda le competenze Stem (scienza, tecnologia, ingegneria e matematica), in particolare quelle tecniche. Le aziende cercano profili come ingegneri del software, data scientist e data engineer, in grado di sviluppare e implementare soluzioni di AI. Tuttavia, per guidare efficacemente i processi di adozione dell’AI, non bastano solo le abilità tecniche. È altrettanto importante possedere competenze di business e di change management, necessarie per accompagnare l’azienda in un percorso di trasformazione. Inoltre, diventa cruciale saper gestire aspetti legati alla governance e alla sicurezza informatica, per prevenire rischi e garantire un utilizzo responsabile delle tecnologie AI. Le imprese devono infatti definire un posizionamento strategico chiaro, in cui i valori aziendali siano allineati sia con le normative emergenti a livello europeo che con le esigenze di un mercato in continua evoluzione.
D: Considerando che piattaforme come Azure (di Microsoft) offrono algoritmi accessibili a tutti, come possono le aziende differenziarsi e sfruttare il vantaggio competitivo nell’ambito dell’intelligenza artificiale?
R: Anche se gli algoritmi sono facilmente reperibili, il valore distintivo risiede nell’uso strategico dei dati unici dell’azienda. Come detto, le imprese devono integrare nei loro sistemi quegli elementi che rappresentano il loro know-how, personalizzando gli algoritmi in base ai dati proprietari o a quelli esterni che, altrimenti, rimarrebbero inutilizzati. In questo modo, è possibile addestrare gli algoritmi per renderli specifici alle esigenze del business e implementare processi di feedback continui che ne migliorino l’efficacia nel tempo. Ricordiamo che il successo di una soluzione di AI dipende da tre componenti fondamentali: dati, algoritmi e cicli di feedback, su cui investire per distinguersi dalla concorrenza.
D: Ma tutto questo richiede un impegno notevole, mentre altri aspetti sembrano più facilmente gestibili. Le Pmi possono davvero affrontarlo con le risorse che hanno?
R: È importante superare l’idea che si possa fare tutto internamente. Anche se alcune aziende dispongono delle competenze necessarie, la chiave per crescere rapidamente e in modo efficace sta nell’aprirsi a collaborazioni esterne. Adottare un approccio di open innovation, coinvolgendo partner come start-up, centri di ricerca o consulenti specializzati, permette di accelerare il processo di apprendimento e sperimentazione. In questo modo, anche le Pmi possono intraprendere un percorso di innovazione senza dover sostenere tutti i costi e le competenze in-house.
D: Quali sono i principali rischi normativi e regolatori legati all’adozione dell’intelligenza artificiale in Italia?
R: L’AI Act introduce norme precise per gestire i rischi connessi all’utilizzo dell’intelligenza artificiale. In Europa, esistono attività per le quali l’uso dell’AI è assolutamente vietato, come il social scoring per classificare i cittadini o l’uso di algoritmi che potrebbero discriminare l’accesso a determinati servizi. Altre applicazioni, invece, sono considerate a rischio elevato e richiedono l’adozione di misure di mitigazione. Le aziende devono quindi implementare meccanismi che garantiscano trasparenza, evitino discriminazioni o bias e promuovano un utilizzo responsabile dell’AI, supportato da un solido modello di governance.
D: Quali strategie dovrebbero adottare le aziende per diventare realmente AI-driven?
R: Per diventare AI-driven, le aziende devono ripensare il proprio modello operativo, sfruttando l’intelligenza artificiale non solo come strumento di efficientamento, ma come leva di potenziamento. L’AI deve essere considerata come un mezzo per amplificare le capacità delle persone, consentendo loro di svolgere le attività in modo più innovativo e creando valore non solo per l’azienda ma anche per dipendenti e stakeholder. La chiave è integrare l’AI in modo strategico, trasformandola in un motore di crescita e di valore condiviso.
D: Negli ultimi tempi l’attenzione sembra essersi concentrata esclusivamente sull’intelligenza artificiale generativa, come ChatGPT e le soluzioni delle aziende cinesi. Crede che anche le aziende italiane sposteranno il loro interesse su questa tecnologia, vista la sua accessibilità e versatilità?
R: È vero che c’è un grande entusiasmo intorno all’intelligenza artificiale generativa, soprattutto perché strumenti come ChatGPT hanno reso l’AI accessibile a un vasto pubblico, mostrando risultati sorprendenti e creativi. Tuttavia, credo che l’intelligenza artificiale tradizionale, come il machine learning e il deep learning analitico, continuerà a rivestire un ruolo fondamentale. Possiamo immaginare queste due tecnologie come i due emisferi del cervello umano: l’AI tradizionale rappresenta l’emisfero sinistro, responsabile dell’analisi, dell’inferenza e della deduzione, utile per compiti come il forecasting e l’elaborazione di dati strutturati. L’AI generativa, invece, somiglia all’emisfero destro, legato alla creatività e all’immaginazione, capace di trasferire conoscenze a nuovi domini e generare contenuti innovativi. Il vero valore emergerà dall’integrazione di entrambe le tecnologie: l’analisi rigorosa dell’AI tradizionale combinata con la creatività dell’AI generativa aprirà nuove opportunità per le aziende italiane, consentendo loro di affrontare sfide complesse in modo più completo e innovativo.
D: Esiste un caso di studio concreto su cui avete lavorato nell’ambito dell’intelligenza artificiale e che sia riferibile, al di là dei vincoli di riservatezza?
R: Nell’ambito dell’intelligenza artificiale lavoriamo con aziende di diversi settori, da quello energetico per supportare i processi di compliance e internal audit, a quello tecnologico per potenziare il customer service, fino all’automotive. In quest’ultimo, ad esempio, abbiamo aiutato un’azienda che produce auto di lusso a digitalizzare il controllo delle etichette omologative sui veicoli, utilizzando intelligenza artificiale, computer vision e machine learning.
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