Fallimenti aziendali in Italia: dopo il minimo storico, nel 2024 tornano a crescere – Economia e Finanza


(Teleborsa) – Dopo anni di calo costante, le procedure di fallimento in Italia tornano a crescere: dai 1.093 casi registrati nel 2023, minimo storico degli ultimi decenni, si è passati a 2.314 nel 2024, con un incremento del 112%. Un dato che segnala una chiara inversione di tendenza e riaccende l’attenzione sulla necessità di strumenti efficaci per prevenire e gestire le crisi aziendali.

In questo scenario complesso, accanto alle misure istituzionali, si rafforza il ruolo del workers buyout (WBO), un modello di rilancio che consente ai lavoratori di rilevare aziende in difficoltà trasformandole in cooperative. Dal 2011 al 2024, le WBO hanno salvato quasi 100 imprese. Queste tra le analisi del report “Evoluzione della Crisi d’impresa in Italia. Regole e strumenti” a cura di Francesco Baldi, Docente dell’International Master in Finance di Rome Business School; Massimiliano Parco, Economista, Centro Europa Ricerche e Valerio Mancini, Direttore del Centro di Ricerca Divulgativo di Rome Business School.

In Italia, secondo Massimiliano Parco, i fallimenti aziendali sono stati causati da una combinazione di shock economici come la crisi finanziaria del 2008, il debito sovrano, la pandemia e la crisi energetico-inflazionistica e fragilità strutturali interne, tra cui l’accesso limitato al credito, l’elevata pressione fiscale e la complessità normativa. Secondo dati ISTAT, dai 11.625 casi di fallimenti del 2012 si è arrivati al picco di 14.735 nel 2014, per poi calare progressivamente fino al 2020, in linea con la ripresa del PIL.

Nel 2020, a fronte di un crollo del PIL del -8,9%, i fallimenti sono scesi sorprendentemente a 7.160 (-32,1%). Una contrazione dovuta alle misure straordinarie varate durante la pandemia tra cui moratorie, sussidi e blocco dei licenziamenti, che hanno temporaneamente frenato le insolvenze. L’effetto rimbalzo è arrivato puntuale nel 2021, con un aumento del 36,2% e 9.755 nuove procedure. Arrivati al 2023, si è registrato un minimo storico: appena 1.093 fallimenti. Ma il 2024 ha segnato una netta inversione di tendenza: +1.000 casi rispetto all’anno precedente, per un totale di 2.314 fallimenti.

Tra luglio 2024 e gennaio 2025, secondo dati InfoCamere, 2.064 aziende hanno aperto una procedura: 665 nei servizi (commercio, trasporti, alberghi), 459 nell’industria e 443 nelle costruzioni. Roma guida la classifica con 209 istanze (10,1%), seguita da Napoli (129), Bari (93) e Padova (91). Per contrastare i fallimenti in modo più tempestivo ed efficace, nel 2022 è entrato in vigore il Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza, che introduce un approccio preventivo alla gestione delle difficoltà aziendali. Il nuovo impianto normativo mira a salvaguardare la continuità operativa attraverso tre categorie di strumenti: prevenzione della crisi, ristrutturazione (prioritaria rispetto alla liquidazione) e liquidazione con possibilità di fresh start. L’obiettivo è favorire interventi rapidi e mirati per evitare il dissesto e sostenere la ripresa delle imprese in difficoltà, ma c’è un altro strumento che negli ultimi anni si è verificato come un’ottima soluzione per il salvataggio aziendale: il workers buyout (WBO).

Il workers buyout è uno strumento di rilancio attraverso il quale i dipendenti di un’azienda in crisi o priva di successione rilevano la proprietà, solitamente costituendo una cooperativa. Questo processo consente di preservare competenze, continuità produttiva e relazioni commerciali, trasformando i lavoratori in protagonisti della ripartenza aziendale.

Secondo dati della Cooperazione Finanza Impresa (CFI), dal 1986 ad oggi, CFI ha erogato 306 milioni di euro a 543 cooperative di lavoro e sociali, contribuendo alla tutela di oltre 25.000 posti di lavoro. Solo nel periodo 2011-2024, sono state finanziate 97 operazioni di WBO per un totale di 58 milioni di euro, coinvolgendo oltre 2.000 lavoratori e generando un valore della produzione pari a circa 490 milioni di euro. “Sostenere e diffondere la cultura del workers buyout potrebbe rappresentare una risposta strutturale a molte crisi industriali italiane soprattutto nel contesto delle piccole e medie imprese, trasformando i dipendenti in protagonisti del cambiamento”, afferma Francesco Baldi.

Analizzando in profondità il periodo 2011-2022 rivela 58 operazioni di WBO sostenute da CFI, con un investimento complessivo di 16,2 milioni di euro, suddivisi in: 7,7 milioni in capitale di rischio, 3,3 milioni in prestiti subordinati e 5,2 milioni in finanziamenti.

La distribuzione territoriale mostra una forte concentrazione in Emilia-Romagna, con 18 operazioni (31% del totale), seguita da Sicilia (8%) e Umbria (7%), mentre sei regioni non presentano alcun caso di WBO (Valle d’Aosta, Liguria, Trentino-Alto Adige, Friuli-Venezia Giulia, Molise e Basilicata). Anche dal punto di vista settoriale il fenomeno non è omogeneo: il 69% dei WBO (40 su 58) è attivo nel settore industriale, 12 nelle attività di servizi e i restanti pochi casi in edilizia, impiantistica e cooperazione sociale.

Benefici e criticità del workers buyout in Italia: un bilancio tra numeri e prospettive
Il WBO si conferma un modello alternativo e partecipato di rilancio aziendale, capace di garantire continuità produttiva e occupazionale nelle imprese in crisi. In Italia, oltre il 90% dei lavoratori coinvolti mantiene il proprio impiego a lungo termine, con cooperative che mostrano un incremento di produttività del 10-15% rispetto alle imprese tradizionali (Euricse, 2023). Inoltre, il tasso di sopravvivenza delle imprese WBO resta elevato: secondo CFI-Cooperazione Finanza Impresa (2024), oltre il 90% delle cooperative nate da WBO è ancora attivo dopo tre anni, rispetto a una media del 75% per le imprese tradizionali. I dati più aggiornati evidenziano che nel periodo 2018-2023 sono stati realizzati 85 nuovi WBO che hanno salvato circa 5.500 posti di lavoro.

Tra i principali vantaggi del WBO vi sono una maggiore stabilità finanziaria, la riduzione dei rischi speculativi e un coinvolgimento diretto dei lavoratori che favorisce coesione interna e investimenti a lungo termine. Tuttavia, non mancano le criticità: il 40% dei progetti fallisce nella fase iniziale per mancanza di capitale (Banca Etica, 2023), mentre il 30% chiude entro 5 anni per carenze gestionali (Confcooperative, 2024). Ostacoli normativi, difficoltà di accesso al credito e processi decisionali più lenti sono altri fattori che ne limitano la diffusione.

Per valorizzare il potenziale del WBO, è fondamentale rafforzare i canali di finanziamento, investire nella formazione manageriale e promuovere reti tra cooperative, istituzioni e territori. L’esperienza italiana dimostra che, se adeguatamente supportato, il WBO può rappresentare una risposta concreta e sostenibile alla crisi d’impresa. “Puntare sul workers buyout significa investire in un futuro d’impresa più stabile, inclusivo e resiliente”, conclude Valerio Mancini.

(Foto: kalhh da Pixabay)



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