Si dice che un Paese è quello che produce. Ed in effetti, ragionando su quello che rappresenta il brand “Italia” al di fuori dei confini nazionali, ritroviamo spesso nella proiezione nel mondo della nostra identità i tratti caratteristici della nostra cultura imprenditoriale: vino, design, moda, meccanica e motori.
Sono settori che hanno espresso nei decenni la miglior classe imprenditoriale italiana, trainando lo sviluppo industriale che usciva dalla Seconda guerra mondiale e che ci ha permesso di diventare uno dei Paesi più ricchi al mondo. Il modello industriale italiano, che negli anni ha dato forma al policentrismo dei distretti industriali e alle filiere specializzate, si trova però oggi a fare i conti con una classe imprenditoriale che fatica a rinnovarsi. Provate a fare il seguente esercizio. Quante delle imprese di successo italiane che competono oggi nel mondo sono aziende avviate nell’ultimo decennio? Poche, quasi nessuna. Siamo, in altre parole, un’economia che si regge su un gruppo ristretto di medie e grandi imprese che sono oggi guidate dalla seconda se non dalla terza generazione di “imprenditori”.
Il mancato rinnovamento della classe imprenditoriale è, a mio avviso, uno dei principali problemi alla base della bassa crescita con cui il Paese convive dagli anni Novanta e che si traduce inevitabilmente in salari reali decrescenti. Siamo tra i migliori produttori al mondo di piastrelle e cucine componibili, ma facciamo di fatto le stesse cose da almeno trent’anni.
Poca innovazione in settori tecnologici avanzati e, soprattutto, poche nuove imprese all’interno di settori industriali maturi che necessitano di essere rinnovati. La poca propensione alla creazione di nuove imprese è peraltro ben visibile nelle statistiche. Con soli tre unicorni – le imprese tecnologiche con una valutazione di mercato pari o superiore al miliardo di dollari – siamo il Paese sviluppato che ha manifestato nell’ultimo decennio la minor capacità di creare nuove imprese di successo. Vale la pena ricordare che i nostri cugini spagnoli hanno prodotto fino ad oggi otto unicorni, lo stesso numero dell’Irlanda, che ha la popolazione del Veneto.
Perché, dunque, non generiamo nuove imprese di successo? Fondamentalmente perché non creiamo un numero sufficiente di startup tecnologiche. L’ascesa di una startup allo status di unicorno è infatti il risultato di una dinamica statistica. Se è vero che solo una nuova startup su dieci mila diventerà un unicorno, è evidente che servono decine di migliaia di nuove imprese tecnologiche per produrre nuovi campioni imprenditoriali.
Anche in questo senso, i numeri ci sono di aiuto. Guardando infatti il numero di startup innovative oggi operanti nei principali mercati europei, registriamo come l’Italia abbia il numero di startup per abitanti tra i più bassi del Vecchio Continente. Mentre in Germania e nel Regno Unito operano oggi rispettivamente 30.000 e 27.000 startup, l’Italia è ferma a 14.000 (234 per milione di abitanti, rispetto alle 366 per milione in Germania e alle 406 per milione nel Regno Unito).
È una tendenza che ritroviamo anche nell’ultimo report prodotto da Dealroom sullo stato dell’arte del deep tech europeo – l’insieme delle nuove tecnologie basate su scoperte scientifiche o ingegneristiche avanzate. Particolarmente interessante è l’analisi relativa al numero degli spinout universitari – nuove imprese avviate attraverso la commercializzazione dei risultati della ricerca – presenti nel panorama economico europeo.
Nelle prime 28 posizioni non vi è infatti nessuna università italiana, mentre troviamo, dopo il dominio inglese con Oxford e Cambridge, università francesi, tedesche ma anche svizzere, belghe, finlandesi e irlandesi.
Ma perché i dipartimenti Stem delle università italiane non sono parte di questo ranking? Manca forse la ricerca applicata di qualità? Probabilmente no. Molti dei dipartimenti di ingegneria presenti in Italia sono dipartimenti di grande valore, che infatti producono studenti e ricercatori apprezzati in tutta Europa.
La risposta a questo dilemma va semmai ricercata nella scarsa propensione imprenditoriale delle università italiane. Produciamo infatti ricerca applicata di qualità, che però troppo spesso rimane confinata all’interno del perimetro universitario. Quanti sono, ad esempio, i dipartimenti Stem che hanno avviato curriculum interni sull’imprenditorialità? Quanti fondi d’investimento partecipano alla vita accademica dei principali dipartimenti di ingegneria in Italia?
All’interno di questo contesto, il Nord Est non rappresenta certamente un’eccezione. Nonostante la presenza di dipartimenti Stem di grande prestigio, si producono oggi a Nord Est poche startup tecnologiche di successo. La risposta a questo problema non può essere ricercata nell’assenza di un’offerta adeguata di capitale di rischio – la quale si attiva in risposta alla domanda di capitale e non in anticipo – ma va invece affrontato all’interno di quei luoghi dove oggi si producono conoscenza complessa e soluzioni tecnologiche.
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