Sono 5.788 le imprese che
dall’Emilia-Romagna esportano verso gli Stati Uniti. Il 73% di
queste, pari a 4.305, hanno sede legale in regione e realizzano
l’84% del fatturato export complessivo. E di queste “ben 1.256
risultano vulnerabili” alle nuove barriere commerciali
annunciate dal presidente Donald Trump. Sono questi i dati che
emergono dallo studio “Dall’America all’officina. Quando il
mercato statunitense fa la differenza”, presentato da
Unioncamere Emilia-Romagna.
Per Guido Caselli, vice segretario di Unioncamere
Emilia-Romagna e curatore dello studio, le imprese più esposte
ai dazi rappresentano “il 90% dell’export emiliano-romagnolo
verso gli Stati Uniti, contribuiscono per la metà al totale
delle esportazioni regionali nel mondo, danno lavoro a oltre
105mila persone, realizzano 50 miliardi di euro di fatturato”.
A livello settoriale, quelle più colpite sono le filiere
collegate alla meccanica a presentare i valori di vulnerabilità
più elevati: dal 43% delle aziende delle macchine per
l’agricoltura fino al 33% dell’automotive, ma l’impatto si
sentirà anche nel settore farmaceutico e biomedicale, in parte
nel settore agroalimentare e alcune realtà della moda.
Le risposte alle iniziative di Washington possono essere
diverse. Per il presidente di Unioncamere Emilia-Romagna,
Valerio Veronesi, “l’unica possibile difesa è consentire alle
imprese di aumentare la loro competitività internazionale: sono
gli imprenditori che affrontano una situazione così incerta e
complessa. Per questo riteniamo ineludibile rilanciare
immediatamente le misure del “4.0” per liberare gli investimenti
in innovazione e contemporaneamente prevedere forme di garanzia
statale per i finanziamenti bancari come è stato fatto durante
il periodo della pandemia” e “in parallelo dobbiamo creare ogni
azione possibile per attirare in Emilia-Romagna quei cervelli
che in questi giorni vengono licenziati e privati dei
finanziamenti necessari per loro ricerche”. Quanto al viaggio
della presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, a Washinghton “è
bene che qualcuno vada negli Stati Uniti a parlare – dice – ma
la decisione alla fine deve essere comune”.
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