Il DLgs. n. 231/2001, nel prevedere la responsabilità amministrativa degli enti, non ne ha disciplinato l’applicazione al “gruppo di imprese”, da intendersi (art. 2 comma 1 lett. h del CCII) quale insieme di enti che, ex artt. 2497 e 2545-septies c.c., sono sottoposti, sulla base di un vincolo partecipativo o di un contratto, alla direzione e coordinamento di una società capogruppo (c.d. holding).
La giurisprudenza ha così cercato di colmare la lacuna, fissando alcuni principi di cui troviamo espressione nella sentenza n. 14343, depositata ieri dalla Cassazione.
La società ricorrente, ritenuta responsabile nei gradi di merito dell’illecito di cui all’art. 24 del DLgs. 231/2001 in relazione al reato presupposto di truffa aggravata (art. 640 c.p.), faceva parte di un raggruppamento temporaneo di imprese, al fine di partecipare a gara di appalto, nel cui ambito era stato commesso l’illecito dipendente da reato.
Nel rilevare l’inadeguata motivazione della sentenza di merito riguardo ai necessari requisiti dell’interesse e del vantaggio in capo alla ricorrente, la Corte ha richiamato il principio per cui, qualora il reato presupposto sia stato commesso nell’ambito dell’attività di una società facente parte di un gruppo o di un’aggregazione di imprese, la responsabilità può estendersi alle società collegate solo a condizione che, all’interesse o vantaggio di una società, si accompagni anche quello, concorrente, di altra società e la persona fisica autrice del reato presupposto sia in possesso della qualifica soggettiva necessaria (art. 5 del DLgs. 231/2001) ai fini della comune imputazione dell’illecito amministrativo da reato (Cass. n. 52316/2016).
La sentenza in esame presenta interesse anche sotto altro profilo. Il DLgs. 231/2001 prevede espressamente (artt. 34 e 35) che al procedimento a carico della persona giuridica si applichino, ove compatibili, le norme del codice di procedura penale e che a conoscere gli illeciti amministrativi sia il giudice penale competente per i reati dai quali gli stessi dipendono (art. 36). Tale regime impone, quindi, che si svolga un unico processo, per l’accertamento sia della responsabilità del reato presupposto, sia dell’illecito amministrativo.
Tuttavia, per alcuni istituti sostanziali e processuali, le diverse discipline – codice di procedura penale e decreto 231 – possono rivelare una rilevante difformità, così da rendere necessaria l’interpretazione giurisprudenziale del loro rapporto.
Nel caso di specie, la Corte, chiamata ad affrontare il tema degli effetti sull’illecito dell’ente a fronte dell’intervenuta prescrizione del reato presupposto, ha ripreso la sua consolidata giurisprudenza, ribadendo che l’esito estintivo, verificatosi successivamente alla contestazione dell’illecito all’ente, non determina per quest’ultimo analogo effetto per il medesimo motivo, giacché nel “sistema 231”, una volta esercitata l’azione, il previsto termine prescrizionale rimane sospeso fino al passaggio in giudicato della sentenza che definisce il procedimento nei confronti della persona giuridica (Cass. n. 31641/2018).
Tuttavia, a fronte della prescrizione del reato presupposto (art. 8 comma 1 lett. b del DLgs. 231/2001), la Cassazione ha evidenziato che il giudice deve procedere all’accertamento autonomo della responsabilità amministrativa dell’ente nel cui interesse o vantaggio l’illecito fu commesso. Tale accertamento non può prescindere da una verifica, quantomeno incidentale, della sussistenza del fatto di reato (Cass. n. 21192/2013), precisandosi ulteriormente che l’autonomia della responsabilità dell’ente rispetto a quella penale della persona fisica che ha commesso il reato presupposto deve essere intesa nel senso che, per affermare la responsabilità dell’ente, non è necessario il definitivo e completo accertamento della responsabilità penale individuale, ma è sufficiente un mero accertamento incidentale purché risultino integrati i presupposti oggettivi e soggettivi di cui agli artt. 5 e ss. del DLgs. 231/2001 (Cass. n. 38363/2018).
Da tali presupposti, che la Suprema Corte condivide, deriva che in caso di maturata prescrizione del reato presupposto, mentre l’affermazione di innocenza della persona fisica richiede (art. 129 comma 2 c.p.p.) l’evidenza della relativa prova, la condanna dell’ente presuppone, per altro verso, la prova positiva, oltre ogni ragionevole dubbio della sua responsabilità, nel rispetto sia dell’art. 533 c.p.p., applicabile in virtù delle già ricordate clausole estensive, sia dell’art. 66 del DLgs. 231/2001 che, in caso di prova mancante, insufficiente o contraddittoria, impone la pronuncia di esclusione della responsabilità dell’ente.
Dunque, non è consentito, come occorso nella sentenza impugnata, far discendere dalla non evidente assenza di responsabilità dell’autore del reato presupposto quella dell’ente, per la quale, come detto, necessita la prova positiva della sussistenza di tutti gli elementi che connotano il relativo illecito.
***** l’articolo pubblicato è ritenuto affidabile e di qualità*****
Visita il sito e gli articoli pubblicati cliccando sul seguente link