di Domenico De Rosa
Nel mondo dell’economia globale raramente si presenta un’occasione in cui le condizioni geopolitiche, le fratture commerciali e le scelte strategiche delle grandi potenze si allineano a offrire una finestra di opportunità a un intero continente. L’Europa si trova oggi davanti a una di queste rare congiunture storiche. Eppure, come spesso accade, sembra ancora esitante, paralizzata dalla sua stessa architettura burocratica e da un’ideologia di virtù contabile che ha troppo spesso sostituito la visione politica.
I dazi annunciati dagli Stati Uniti, l’imponente strategia di rilocalizzazione industriale, i piani da centinaia di miliardi per rafforzare il mercato interno e la leadership tecnologica, non sono un’anomalia temporanea ma l’espressione matura di una nuova logica, il tempo della globalizzazione ingenua è finito. Le nazioni che vogliono restare sovrane economicamente prima ancora che militarmente stanno facendo una scelta di campo netta, potenziare la domanda interna, difendere la propria produzione strategica, sostenere l’industria non solo con incentivi, ma con una visione. L’Europa, al contrario, si muove con passo timido e spesso contraddittorio.
La sua ossessione per l’equilibrio dei bilanci, la sudditanza a un Patto di stabilità pensato per un mondo che non esiste più, e il suo affidarsi a una molteplicità di vincoli regolatori, hanno fatto di essa un gigante frenato, che pretende crescita senza spesa, competitività senza protezione, e innovazione senza libertà d’impresa. Ma il tempo della cautela è finito. L’Europa deve avere il coraggio e la lucidità di leggere l’attuale contesto come l’occasione storica per liberarsi da un paradigma ormai sterile. Non si tratta di inseguire gli Stati Uniti nel protezionismo, ma di rivalutare radicalmente la propria strategia economica. È tempo di una nuova stagione europea, fondata non sulla dipendenza dalle esportazioni, ma sulla forza del mercato interno.
È lì che si gioca la vera sovranità economica: nel potere d’acquisto dei cittadini, nella capacità di mobilitare consumi, investimenti, innovazione, lavoro qualificato. Una politica espansiva, fatta di grandi piani industriali continentali, investimenti strutturali e immateriali, credito agevolato per le imprese strategiche, rilancio della domanda pubblica e privata, questa è l’unica via per evitare di trasformarsi in un’enorme area di libero scambio a favore altrui. Invece di ritagliare briciole di competitività residua sui mercati esteri, dobbiamo costruire una nuova centralità del cittadino-consumatore europeo, incentivando la produzione locale per soddisfare la domanda interna, rigenerando filiere industriali che negli ultimi trent’anni abbiamo lasciato andare in nome del dogma dell’efficienza globale. Il Patto di stabilità, in questo contesto, è un ostacolo più culturale che tecnico. Nessun paese serio può pensare di affrontare le grandi transizioni energetica, digitale, tecnologica senza una capacità piena di investimento.
La Germania stessa, che per anni ha fatto del rigore il proprio marchio, è oggi costretta a confrontarsi con i limiti di quel modello, tra stagnazione e crisi infrastrutturale. Serve una revisione strutturale delle regole fiscali europee, che smetta di punire la spesa produttiva e distingua tra debito sterile e debito strategico. Trovare margini nei bilanci nazionali per investimenti pubblici di lungo periodo non è solo una scelta economica: è un dovere politico, se l’Europa vuole sopravvivere come attore globale. In questo quadro, l’idea di concentrare ogni ambizione su un piano da 800 miliardi per il riarmo continentale appare, nella migliore delle ipotesi, monca. Nessuna potenza si afferma nel mondo di oggi con la sola forza militare.
Senza una base industriale forte, una coesione sociale alimentata da occupazione e redditi dignitosi, senza una capacità tecnologica autonoma, l’Europa potrà al massimo armarsi per difendere la sua irrilevanza. Ciò che manca oggi è una visione continentale, coraggiosa e moderna, che non si limiti a rispondere agli stimoli esterni, ma che detti l’agenda. Siamo di fronte a un bivio, o ripensiamo radicalmente il nostro ruolo nella competizione globale, con una politica economica fondata sulla crescita interna, la deregolamentazione selettiva e il sostegno pieno all’industria strategica, oppure continueremo a inseguire gli altri, in un eterno compromesso tra ambizione e rassegnazione. E il tempo, questa volta, non sarà clemente.
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