Con gli elogi di Trump, il “mandato” sostanzialmente ricevuto dalla Von der Leyen a verificare con il tycoon le condizioni di un negoziato Usa-Ue sui dazi, Meloni si propone come leader di più alto livello. Questo la obbliga a tradurre nel concreto su quali basi saranno avviate le ipotesi di mediazione sulla reciprocità dei dazi fra le due sponde dell’Atlantico. E quanto l’impegno del governo italiano sulla riduzione delle tasse sulle Big Tech, l’incremento delle spese militari al 2% del Pil, l’acquisto di armi americane, la fornitura di gas americano sovrapprezzo, incideranno sulla competitività del nostro manifatturiero in una economia di guerra. Oltre che sulla spesa sociale.
Ma quel che intanto deve essere più attentamente analizzato è il messaggio a “fare più forte l’Occidente“. Qui il “patriottismo“ della destra italiana esce dalla sfera nazionale per guadagnare la dimensione “dell’Occidente unito“. Con Meloni a farsi ponte di un rinnovato patto euroatlantico. Torna a fare da collante, in questa nuova chiave, l’uso di un potente fattore ideologico. Che si fonda su suprematismo bianco, discriminazione di razza e di genere, destrutturazione dello Stato di diritto di impianto liberaldemocratico; ciò a vantaggio dei poteri monocratici e delle oligarchie del tecnocapitalismo che porta il democratico americano Bernie Sanders a sostenere: ”Viviamo in una società oligarchica in cui i miliardari non solo dominano la politica e le informazioni che consumiamo, ma anche il nostro governo e le nostre vite economiche… Oggi Musk, Bezos e Zuckerberg hanno una ricchezza combinata di 903 miliardi di dollari, più di quanto possieda la metà più povera della società americana – 170 milioni di persone”.
Ma ammesso che per ragioni geopolitiche o di sicurezza Europa e Italia decidano di collocarsi con l’Occidente rappresentato dalla nuova era del tecnocapitalismo, siamo sicuri che nella sfida planetaria ci verrà qualcosa di buono? A mio avviso il fattore ideologico di “America First“, nella versione “faremo l’Occidente più forte”, sarà destinato a misurarsi con la realtà e a ricavare da quella realtà una durissima lezione.
È la realtà del debito enorme degli Stati Uniti. E della crescente forza economica della Cina che, secondo stime del FMI, nel 2025 supererà del 30% quella americana. La stessa Cina, secondo l’economista Francesco Sylos Labini, nel 2021 ha depositato il 37% dei brevetti mondiali; ovvero con gli Usa fermi al 17%. Le autovetture elettriche esportate dai cinesi nel 2020 erano un milione; a fine ’24 sono state 6 milioni.
Per questo Trump, benché di corto respiro, non potrà rinunciare a breve alla opzione del protezionismo. Ovvero a una politica dei dazi, sia pur diversificata per prodotti e accordi bilaterali coi singoli paesi (altro che Unione europea). Questa politica mira a ridurre la dipendenza dalle esportazioni e a rafforzare occupazione interna. Mentre sempre per finanziare il suo debito intende appropriarsi di risorse strategiche come le terre rare in Ucraina o l’annessione della Groenlandia, rieditando il colonialismo del secolo scorso. Soprattutto se la FED aumenterà i tassi; il che vuol dire minore ricorso ai prestiti per famiglie e imprese.
Per questo accrescere la nostra dipendenza dagli Usa è dannosa. Come lo è altrettanto l’economia di guerra del RE-Arm UE e il rilancio del nazionalismo in Germania, deciso nel piano di riarmo votato da governo e Parlamento tedesco.
Questo accade perché l’ideologia dell’Occidente non legge la realtà multicentrica del mondo, come invece nella lucida interpretazione del Papa che ci ha lasciato. Non si vuole prendere atto che l’eurocentrismo di una storia secolare non solo è messo in ombra dalla declinante pretesa egemonica del nuovo corso americano, quanto è messo fuori scala dalla realtà economica di Cina e India. E dei Brics che con la New Devolment Bank di Shangai mettono in discussione il dollaro come moneta di riserva, magari per affiancarlo coi propri titoli pubblici. Qui è lo spazio per una iniziativa europea, oltre l’inattuale eurocentrismo autarchico. Per riequilibrare le istituzioni internazionali, dar più peso a Brasile, India, Sudafrica nel FMI, nella Banca mondiale, nel WTO.
E sul fronte interno investire di più nel Continente, invece di accumulare surplus commerciale. Come nella proposta di Draghi di una terapia d’urto. Ma in direzione diversa da quella da lui indicata. Ovvero non a vantaggio del settore privato. Quanto nei beni pubblici: istruzione, sanita, transizione ecologica, settore digitale per cointrollare i grandi gruppi privati dominanti.
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