Dieci anni di Jobs Act: la produttività delle imprese è migliorata*


La riforma del governo Renzi ha aumentato l’efficienza produttiva delle imprese. I maggiori benefici sono andati ai datori di lavoro, ma anche i lavoratori ne hanno tratto vantaggi: salari più alti, creazione di nuovi posti e contratti più stabili.

Come le tutele del lavoratore possono influenzare la produttività

Nel 2015, il Jobs Act ha riformato profondamente la disciplina dei licenziamenti in Italia. Il superamento del “doppio regime” — la coesistenza di due sistemi di tutela del lavoratore in caso di licenziamento illegittimo, distinti in base alla dimensione dell’impresa — ha creato una discontinuità normativa che oggi, a distanza di dieci anni e alla vigilia di un referendum abrogativo, offre un’opportunità unica per valutarne l’efficacia.

In un nostro studio ci concentriamo su due domande complementari: il Jobs Act ha aumentato l’efficienza produttiva delle imprese? E, se sì, come sono stati distribuiti i guadagni in termine di produttività tra capitale e lavoro?

Le norme sui licenziamenti possono influenzare la produttività attraverso due canali. Il primo riguarda l’efficienza allocativa ed è stato confermato da un’ampia letteratura: regolamentazioni troppo rigide possono ostacolare il naturale spostamento dei lavoratori da imprese meno produttive verso quelle più efficienti, frenando così la riallocazione ottimale delle risorse. Il secondo canale riguarda l’efficienza tecnica all’interno delle imprese, e qui gli effetti sono più ambivalenti. Da un lato, maggiori tutele possono favorire investimenti in formazione e capitale umano, grazie alla maggiore stabilità dei rapporti di lavoro. Dall’altro, possono ridurre gli incentivi all’impegno individuale — perché il rischio di licenziamento è più basso — e possono scoraggiare le imprese dall’adottare nuove tecnologie che potrebbero richiedere ristrutturazioni del personale, rese costose e incerte dalle tutele esistenti. In questo studio ci concentriamo su questo secondo canale.

I dati, l’approccio empirico e i risultati

Per identificare l’effetto causale del Jobs Act, usiamo dati di bilancio Aida su un ampio campione di Pmi italiane nei settori industria e servizi tra il 2011 e il 2019 e confrontiamo le imprese con 16-20 dipendenti nel 2014 (cosiddette trattate) con quelle con 9-13 dipendenti (cosiddette di controllo). Escludiamo le imprese con 14 o 15 dipendenti per evitare distorsioni legate a comportamenti strategici: alcune aziende potrebbero aver mantenuto intenzionalmente la propria dimensione sotto la soglia per evitare di ricadere nel regime più rigido di tutela previsto prima della riforma, rendendole meno indicate a svolgere la funzione di imprese di controllo.

Troviamo che, in media, il Jobs Act ha aumentato la produttività totale dei fattori delle imprese trattate dell’1 per cento nei cinque anni successivi alla riforma. L’effetto è stato più forte nel primo anno e si è attenuato nel 2018-2019 (figura 1), un periodo coincidente con la parziale revisione della riforma tramite il “decreto Dignità” e la sentenza della Corte costituzionale. L’effetto sulla produttività del lavoro (misurata in valore aggiunto per lavoratore) è ancora più marcato (+1,5 per cento). La nostra ipotesi è che la riforma abbia liberato il potenziale delle imprese, rimuovendo una rilevante barriera alla crescita e incentivando l’adozione di nuove tecnologie produttive più efficienti ma anche più rischiose. Infatti, la riduzione dell’incertezza su reintegro e indennizzi può aver spinto le imprese ad adottare tali tecnologie, consapevoli della maggiore flessibilità nella gestione del personale in caso di necessità di ristrutturazioni aziendali. Quest’ipotesi è supportata nei dati, poiché l’analisi dimostra come l’intensità di capitale (per lavoratore) aumenta progressivamente nelle imprese trattate rispetto a quelle di controllo dopo la riforma, raggiungendo un +4 per cento cinque anni dopo la riforma.

Figura 1 – Effetto dinamico del Jobs Act sulla produttività totale dei fattori

Nota: le barre mostrano l’effetto stimato, le linee verticali mostrano l’intervallo di confidenza. Quando le linee verticali intersecano la linea orizzontale dello zero l’effetto stimato è da considerarsi non statisticamente significativo.
Fonte: Ciminelli e Franco (2025).

Un potenziale problema è che il Jobs Act è stato introdotto nello stesso periodo di un incentivo alle assunzioni previsto dalla legge di bilancio 2015. Tuttavia, il sussidio era accessibile a tutte le imprese e, anzi, risultava relativamente più vantaggioso per quelle sotto la soglia dei 15 dipendenti. Non può quindi spiegare le differenze osservate nella crescita della produttività tra imprese trattate e non trattate dal Jobs Act. È possibile, tuttavia, che il sussidio abbia contribuito ad amplificare l’effetto della riforma.

Come si sono distribuiti i guadagni?

L’efficienza delle imprese è aumentata, ma i frutti non sono stati distribuiti in modo uniforme. Sebbene i salari medi siano cresciuti dello 0,9 per cento nelle imprese trattate rispetto a quelle di controllo, la produttività per lavoratore è aumentata di più, riducendo la quota di valore aggiunto destinata al lavoro di 0,7 punti percentuali nel medio periodo. Il Jobs Act ha dunque aumentato il peso del capitale nella distribuzione del reddito. Per quanto l’incremento della quota del capitale possa essere parzialmente spiegato come una remunerazione per l’aumento degli investimenti, è plausibile che la riduzione delle tutele dell’impiego abbia ridotto il potere contrattuale dei lavoratori.

In conclusione, il Jobs Act ha reso le imprese italiane più efficienti. Se è vero che i maggiori benefici sono andati ai datori di lavoro, è altrettanto vero che anche i lavoratori hanno tratto vantaggio in termini assoluti: salari più alti e, secondo altre evidenze, creazione di più posti di lavoro e contratti più stabili. In sintesi, la riforma ha avuto effetti positivi sia sull’efficienza sia, in parte, sulla qualità del lavoro.

* Le opinioni espresse in questo articolo sono esclusivamente degli autori e non riflettono necessariamente quelle della Banca Asiatica di Sviluppo o di Confindustria.

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Gabriele Ciminelli

paliotta

Gabriele Ciminelli è economista presso la Banca Asiatica di Sviluppo, specializzato in finanza internazionale, mercati del lavoro ed economia politica. Ha pubblicato su riviste accademiche di rilievo e ha lavorato in precedenza all’OCSE, anche come desk economist per l’Italia, al Fondo Monetario Internazionale e all’Asia School of Business. Ha conseguito un dottorato in Economia all’Università di Amsterdam e una laurea magistrale in Relazioni Internazionali all’Università di Bologna.

Guido Franco

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Guido Franco è Senior Economist presso il Centro Studi di Confindustria, dove coordina le attività di ricerca sulle dinamiche d’impresa e sui trend industriali. Dal 2018 al 2024 ha lavorato come Economista nella Divisione di Analisi delle Politiche Strutturali del Dipartimento di Economia dell’OCSE. In precedenza, ha collaborato come consulente esterno con la Banca Interamericana di Sviluppo e ha lavorato come business analyst nella società di consulenza Arthur D. Little. Ha conseguito un dottorato di ricerca in Economia presso l’Università di Roma Tor Vergata e un Master of Science (M.Sc.) in Economia presso l’Università Bocconi. I suoi principali interessi di ricerca includono la dinamica della produttività e i suoi determinanti, l’efficienza allocativa e, più in generale, l’economia applicata.



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