L’Italia può ancora trovare spazio nella partita della transizione ecologica


Dalla newsletter settimanale di Greenkiesta (ci si iscrive qui) – Nuove tecnologie e materie prime, riconversione di interi settori, professionalità emergenti, posti di lavoro a rischio, politiche industriali da ripensare. Per affrontare il cambiamento climatico bisogna attuare una transizione ecologica ed energetica ambiziosa, lungimirante e giusta. La partita è delicata, di fatto ci troviamo nel bel mezzo di una rivoluzione industriale verde che sta ridefinendo gli assetti produttivi ed economici di interi Paesi. 

Nella mappa della transizione ecologica globale, l’Italia è piccola, vulnerabile e troppo dipendente dall’estero. Abbiamo perso il treno della cosiddetta prima ondata delle tecnologie per la decarbonizzazione e l’elettrificazione, sprecando un’invitante opportunità manifatturiera: l’automotive italiano è in crisi, e non riusciamo a produrre su larga scala le tecnologie per l’eolico e il fotovoltaico. 

Per non trasformarsi definitivamente in una ex potenza industriale, l’Italia deve recuperare terreno grazie alle tecnologie emergenti (come lo stoccaggio energetico di lunga durata e le batterie di nuova generazione) e al recupero delle materie prime critiche – comprese le famigerate terre rare – tramite il riciclo delle batterie delle auto elettriche e altre tecnologie. Insomma: se non puoi estrarle, allora ottienile tramite il riciclo.  

Il nostro potenziale è stato colto anche dalla Commissione europea, che ha puntato su quattro progetti italiani specializzati nel riciclo delle materie prime critiche. Di questo e altro abbiamo parlato con Giuliana Mattiazzo, vicerettrice per l’Innovazione scientifico-tecnologica del Politecnico di Torino. L’ateneo piemontese fa parte della coalizione “Cleantech for Italy”, presentata settimana scorsa alla Camera, che mira a sensibilizzare la politica sull’importanza di realizzare un piano di sviluppo che metta sullo stesso piano decarbonizzazione e innovazione.

Professoressa Mattiazzo, la lotta al cambiamento climatico è anche una sfida industriale. Si tratta di una consapevolezza che, almeno in Italia, si è diffusa solo di recente nei dibattiti pubblici e politici. Anche per questo abbiamo perso l’opportunità manifatturiera sulle prime tecnologie pulite?
«Penso che in Italia non si sia creduto fino in fondo in una politica industriale integrata con le tecnologie verdi. La fase iniziale dello sviluppo di qualsiasi tecnologia passa da un periodo di ricerca e sviluppo approfondito, poi – crescendo in termini di Trl (Technology readiness level, Livello di maturità tecnologica, ndr) – realizzi i prototipi in grande scala. Tuttavia, soprattutto nell’ambito dell’energia rinnovabile, è difficile arrivare a numeri sostenibili dal punto di vista del costo livellato dell’energia. Ecco perché molte attività si sono arenate a monte dell’industrializzazione. L’impresa italiana, intesa in senso ampio, non ha creduto nella serietà della politica industriale».

La coalizione “Cleantech for Italy” punta proprio a coniugare decarbonizzazione e innovazione industriale. Quale apporto può fornire il Politecnico di Torino?
«Abbiamo un numero importante di ricercatori impegnati nello sviluppo di tecnologie e processi sulla transizione verde. Per noi, poter veicolare delle attività di ricerca verso aziende che possono trovare un’applicazione reale, imprenditoriale, è molto importante. Puntiamo anche a fornire un supporto nella definizione delle filiere produttive sulle tecnologie emergenti. Vogliamo dare un contributo a un sistema che deve crescere. “Cleantech for Italy” è una bella iniziativa, che punta a integrare aziende e centri di ricerca. L’obiettivo è quello di condividere best practice e generare una cultura condivisa. È quello di cui abbiamo bisogno». 

La Cina vuole imporre restrizioni all’esportazione dei minerali strategici, fondamentali per le batterie, i pannelli solari e altre tecnologie della transizione verde. Quale sarà l’impatto sul cleantech occidentale?
«Premessa: in Italia dobbiamo migliorare nella lavorazione delle materie prime recuperate dai prodotti di scarto, anche per mitigare i rischi associati all’approvvigionamento. L’impatto probabilmente ci sarà, anche se sarà soprattutto una questione di prezzi, di mercati, di stoccaggio. Ma ora è difficile fare pronostici».  

L’Italia può diventare leader nel riciclo delle materie prime necessarie per le tecnologie pulite?
«Dare una seconda vita alle tecnologie prodotte è fondamentale. Oggi, ad esempio, le pale eoliche sono tutte in fibra e resina; le barche hanno lo stesso problema. Dobbiamo pensare anche al loro smaltimento. Già oggi è essenziale avere la forza di progettare nell’ottica di un riutilizzo dei materiali usati per le costruzioni. Dobbiamo migliorare, ma non partiamo da zero a livello industriale».

Quali sono le altre cleantech emergenti su cui l’Italia dovrebbe puntare?
«Dipende se consideriamo già persa la corsa in alcuni settori. L’eolico offshore, grazie ai nostri porti, potrebbe avere ancora un grande sviluppo. In Italia godiamo di un tessuto imprenditoriale manifatturiero: abbiamo tutte le competenze idonee per costruire delle tecnologie proprietarie. Quello della transizione verde è uno dei settori per cui basterebbe allineare una filiera nazionale, perché le competenze ci sono e abbiamo la capacità di sviluppare le tecnologie. Anche l’accumulo ha del potenziale, ma diverse aziende di batterie hanno avuto difficoltà in Europa… guarda cosa è capitato a Northvolt. Alle imprese serve una politica industriale ferma e di prospettiva, in grado di orientare correttamente gli investimenti». 

In Italia c’è un buon margine di riconversione industriale? Pensiamo soprattutto alle aziende del fossile e all’automotive.
«Il margine è alto, soprattutto nell’automotive. Una delle competenze più importanti delle aziende dell’auto è la capacità di industrializzare, cioè di rendere economica la produzione. Si tratta di una competenza che si acquisisce solo grazie a una produzione di massa, che la nostra industria dell’automotive ha avuto. Non a caso, ora tantissime aziende stanno arrivando sul territorio torinese per utilizzare le capacità di industrializzazione in ambito manifatturiero delle imprese legate all’automotive. Si tratta di un vantaggio da sfruttare in tanti domini applicativi: lo spazio, le tecnologie per le rinnovabili e tanto altro. Le nostre aziende dispongono, e continueranno a disporre, della capacità di riconvertirsi in altri ambiti, qualora non si torni a una produzione massiva come quella precedente. Uno dei grandi problemi, però, rimane il costo dell’energia, che non dà una mano alle aziende nella successiva commercializzazione. E poi, a livello di indirizzo, è spesso tutto molto labile».

Si riferisce anche allo stop alla vendita di veicoli a motore termico dal 2035?
«L’obiettivo del 2035 è diventato un obbligo. Sul green, ci vorrebbe una strategia di penetrazione quasi obbligatoria, con più step da raggiungere prima di centrare l’obiettivo finale. La transizione va sempre accompagnata. Come? Ad esempio con i veicoli ibridi o attraverso percorsi i cui sviluppi industriali siano compatibili con le attuali produzioni. Bisogna avvicinarsi al target del cento per cento elettrico, ma con un accompagnamento».

Ursula von der Leyen, però, cita sempre più spesso la neutralità tecnologica. L’Unione europea ha manifestato la volontà di aprirsi ai carburanti alternativi, che potrebbero allungare la vita delle nuove auto a motore termico anche dopo il 2035. La Germania vuole gli e-fuel, che hanno problemi di fattibilità commerciale; l’Italia preme sui biocarburanti. Rientrano nelle nuove tecnologie di cui parlavamo? 
«Sì, in Italia le tecnologie legate ai biocarburanti sono già sviluppate e hanno ancora del potenziale da sprigionare».

La scienza del clima è chiara: dobbiamo accelerare ulteriormente nella riduzione delle emissioni. Allo stesso tempo, però, sono emerse delle criticità di natura industriale. È un gioco di compromessi e le responsabilità sono diffuse. Secondo lei, da che parte pende la bilancia?
«È giunto il momento di abbinare il tessuto produttivo e la necessità di ridurre l’impatto climatico. La sostenibilità ambientale, però, non può far saltare tutte le aziende. Bisogna individuare la giusta strategia per soddisfare gli obiettivi climatici, tenendo conto delle diversità tra i singoli settori. La politica dà degli indirizzi, e un’azienda non cambierà senza un indirizzo politico quasi obbligatorio. Ognuno gioca la sua partita. La politica ha l’obbligo di continuare a fare ciò che ha sempre fatto. Nel frattempo, però, servono tavoli più concertati con le imprese per trovare dei compromessi».



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