È passato ormai oltre un anno dall’emanazione del Decreto Legge 19 che, all’articolo 38, dettava la disciplina del piano Transizione 5.0. Un incentivo con una gestazione lunghissima, che risale alla prima metà del 2023, quando il Governo, abbandonata l’idea originaria di ripotenziare il piano Transizione 4.0, decise di cogliere l’opportunità offerta dal nuovo programma RePower EU. In questo articolo evidenziamo alcuni errori di impostazione del piano confidando che siano tenuti in conto dal Legislatore in vista di una futura rimodulazione del piano.
Una gestazione lunga con un equivoco di base
Il piano Transizione 5.0 è stato il frutto di enormi compromessi e qualche equivoco.
In primo luogo, le risorse del RePower EU avevano un vincolo molto chiaro: dovevano servire a rendere l’Europa indipendente dalle forniture del gas russo. E quindi stimolare operazioni di riconversione o efficientamento energetico.
Come abbiamo già anticipato, il Governo, però, aveva promesso alle imprese, sin dalla fine del 2022, che avrebbe ripotenziato il piano Transizione 4.0 che dal 2023 aveva subito un dimezzamento delle aliquote, passate dal 40% al 20%.
Di qui l’idea di ragionare a una nuova agevolazione che mettesse insieme la componente di incentivo all’acquisto di beni strumentali e quella legata al risparmio energetico.
Il nuovo piano, come non si stanca mai di ricordare Marco Calabrò, Capo Dipartimento per le politiche per le imprese del Ministero delle Imprese e del made in Italy, si proponeva di fare un passo in avanti rispetto al piano Transizione 4.0. Mentre quest’ultimo era centrato e focalizzato sui processi di digitalizzazione e prevalentemente sull’ammodernamento dei beni strumentali, il nuovo piano Transizione 5.0 si poneva degli obiettivi più ambiziosi: invece di limitarsi all’idea di digitalizzazione come mera sostituzione di un bene, guardava a come i nuovi beni venivano introdotti e inseriti nei processi industriali e a come potevano concorrere all’efficientamento dei processi industriali stessi. Si richiedeva quindi alle imprese una maggiore capacità di ingegnerizzazione, di programmazione e di progettazione degli investimenti, con un potenziale maggiore coinvolgimento di soggetti esterni per supportare le imprese in queste strategie di innovazione.
Principi logici e corretti che però si sono scontrati con un equivoco di base: la presunzione cioè che la digitalizzazione poteva direttamente produrre un risparmio energetico. Il Governo, in pratica, ha tradotto letteralmente il principio che si trova alla base della cosiddetta Twin Transition, che cioè il Digitale è un abilitatore della Sostenibilità, pretendendo che la sostituzione di un bene (per la quale si decise di confermare l’elenco dei beni alla base del piano 4.0, ovvero i beni strumentali materiali e immateriali tecnologicamente avanzati) fosse in grado di produrre direttamente un vantaggio in bolletta.
Questo equivoco di fondo, unito alla visione “progettuale” e alla necessità di dimostrare numericamente i benefici ottenuti con delle specifiche campagne di misura, ha prodotto una normativa complessa e soprattutto poco funzionale.
Questa è – ad avviso di chi scrive – la causa prima dello scarso appeal che il piano ha esercitato sulle imprese nel suo primo anno di vita.
A questo si aggiungano poi una serie di errori “tattici”: la scelta del GSE come gestore della piattaforma, il ritardo clamoroso nell’emanazione del decreto attuativo e della circolare operativa, le prime FAQ che si limitavano a ribadire l’ovvio senza affrontare le questioni più spinose, le erronee valutazioni sulla parte relativa alle rinnovabili, le scelte fatte sul divieto di cumulo con la ZES, che rendevano la misura poco interessante per le imprese del Sud.
E fronte dei primi scarsi risultati conseguiti dal piano, il Governo ha poi reagito con la “strategia delle FAQ” che, per rendere l’incentivo più interessante, hanno cominciato ad allargare le maglie interpretative della normativa, in maniera a volte anche discutibile (sia sul piano normativo, sia su quello sostanziale).
Che cosa si poteva fare meglio, da subito
Ed eccoci alla questione che dà il titolo a questo articolo: si poteva fare diversamente?
La risposta – la diamo subito – è “sì, certamente”: si poteva fare diversamente e meglio, da subito. Ma non era sicuramente semplice.
In primo luogo va riconosciuto al Governo che la sua libertà di azione sul piano normativo è stata fortemente limitata dalla cornice in cui il piano Transizione 5.0 si inquadrava: tutte risorse europee e – per giunta – finalizzate alla riduzione dei consumi. I Governi, però, hanno la possibilità di scegliere come e dove allocare le risorse del bilancio nazionale. Perché non si è pensato, come fu per il piano Transizione 4.0 nel periodo 2021-2022, a un fondo complementare che, per esempio, permettesse di gestire una parte delle irragionevoli esclusioni causate dalla disciplina DNSH?
Va poi considerato che il tempo a disposizione delle imprese per assorbire la novità del piano Transizione 5.0 e trasformare l’inventivo in investimenti era di poco più di un anno. Se l’orizzonte temporale è breve, la misura deve essere più semplice.
Ma il vero errore è stato fossilizzarsi sulla piattaforma di partenza del piano Transizione 4.0, con i suoi due allegati dedicati alla lista dei beni strumentali materiali e immateriali che spesso poca o nessuna relazione hanno con il risparmio energetico. Pensare che un robot, una stampante 3D o un software per la progettazione possano produrre in maniera diretta e misurabile un risparmio di energia è pura fantasia. La scelta da fare era lasciare da parte l’esperienza del piano 4.0 e ripartire lavorando su quegli investimenti coerenti con gli obiettivi del piano. Che, lo ricordiamo, erano e sono risparmio di energia e riduzione dei consumi.
Lo sapete quali sono i principali responsabili dei consumi elettrici dell’industria? Si stima che circa il 70-80% del consumo totale di energia elettrica nel settore industriale sia dovuto all’uso di motori elettrici. Motori elettrici che non sono presenti, in quanto componenti stand alone, nell’elenco previsto dall’allegato A. Così come mancano pompe e compressori, responsabili di un altro 10% circa dei consumi elettrici.
Il Mimit si è più volte difeso sul punto spiegando che la Commissione Europea ha chiesto di tenere come base di partenza i due allegati A e B contenenti l’elenco dei beni che erano possibile oggetto di investimento. Eppure abbiamo visto che nell’allegato B sono stati inseriti i sistemi per il monitoraggio dei consumi energetici e persino gli ERP. Non sarebbe stato sensato quanto meno aggiungere motori, pompe e compressori nell’allegato A? Questo avrebbe permesso sì di richiedere delle campagne di misurazione e ottenere dei report con i risparmi energetici ottenuti.
Un altro punto: eliminando il vincolo della dimostrazione del risparmio ottenuto si sarebbe potuto incentivare l’uso intelligente della tecnologia (sensori, IoT, AI, software di gestione energetica, digital twin) per ottimizzare i processi produttivi esistenti o nuovi, ottenendo risparmi energetici indiretti significativi e miglioramenti di produttività, più in linea con una visione “5.0” avanzata. Questi investimenti avrebbero potuto essere considerati, magari, trainati da almeno un investimento che producesse il risparmio energetico minimo necessario ai fini del conseguimento degli obiettivi del piano.
E poi c’è il tema delle rinnovabili. Come sappiamo l’attuale piano Transizione 5.0 considera l’investimento in rinnovabili “trainato”. Il risparmio energetico deve quindi essere prodotto dall’investimento in beni strumentali digitali. Solo a quel punto si può aggiungere al progetto anche l’acquisto di pannelli.
E qui nascono due domande. La prima: perché non separare l’incentivo sulle FER da quello per i beni strumentali? Sappiamo benissimo che era possibile finanziare con il RePower EU anche quella parte con un incentivo dedicato. E la seconda domanda: perché scegliere un sistema che, per le rinnovabili, eredita le aliquote ottenute con il risparmio energetico conseguito tramite la sostituzione dei beni strumentali? Non sarebbe stato meglio dedicare una più semplice tabella di aliquote specifiche per le diverse tipologie di rinnovabili e soprattutto indipendente dall’efficientamento ottenuto con i beni digitali? In tal modo si sarebbe potuto semplificare ab origine il quadro delle aliquote, evitare il meccanismo delle maggiorazioni per le diverse tipologie di pannelli.
Anche sulla formazione – a cui sarebbe riservato il 10% delle risorse – si poteva e doveva fare di più, a partire da una campagna di comunicazione per arrivare, magari, a una riduzione dei vincoli sulla durata minima dei corsi e sulle “materie obbligatorie”.
Sulla procedura invece una domanda su tutte: perché limitare i progetti a un solo intervento per volta, costringendo così le imprese o a limitarsi a un unico processo interessato o a dover “scalare” all’intera struttura produttiva?
Non ho qui voluto riferirmi a diverse altre soluzioni per altri aspetti più di dettaglio, a partire dalle procedure operative. Ho preferito soffermarmi solo sui punti cardine del piano, che sono poi quelli che permettono a un incentivo di essere o meno “vincente”.
Piccolo memorandum per il futuro del piano Transizione 5.0
Ricapitolando, cosa si sarebbe potuto fare?
- Aggiungere un fondo complementare per risolvere l’enorme problema delle esclusioni dei settori energivori causato dal DNSH.
- Una misura più semplice considerando il poco tempo a disposizione
- Includere motori, pompe e compressori ad alta efficienza all’elenco dei beni strumentali incentivabili, magari tramite un meccanismo più semplice e diretto simile a quello del Transizione 4.0, ottenendo un impatto significativo sull’efficienza energetica senza troppa complessità.
- Consentire l’aggiunta al progetto di investimento dei beni 4.0 in grado di produrre benefici indiretti sull’ottimizzazione dei processi
- Dedicare un incentivo a parte alle rinnovabili oppure un quadro più semplificato con aliquote dedicate
- Rendere più appetibile l’inventivo sulla formazione rimuovendo alcuni limiti posti dalla disciplina attuale
- Consentire alle imprese di portare avanti più progetti contemporaneamente su diversi processi produttivi senza dover per forza scalare all’intera struttura produttiva
Sappiamo benissimo che anche nel 2026 sarà imprescindibile supportare le imprese nella doppia transizione digitale e green. L’auspicio è che il Governo possa lavorare su queste aree di miglioramento nella pianificazione delle prossime agevolazioni – un piano Transizione 5.0 bis? – superando le complessità e le incertezze che hanno caratterizzato questa esperienza.
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